Un libro sulla storia del Carnevale degli anni '50
Le edizioni degli anni '50 del Carnevale ghemmese si caratterizzano per una grande partecipazione, grande vivacità, grandi lavori. Soprattutto nel biennio 1955 e 1956 si costruiscono molti carri allegorici, rinvigorendo una tradizione risalente agli anni 30 (nel 1937 un carro partecipò con grande successo al carnevale di Novara, piazzandosi al secondo posto)
Una figura in particolare lascerà un segno forte, caratteristico: la maschera di Re Barlan, interpretata da Gaudenzio Lucca, soprannominato "èl Tèjou". I suoi discorsi, scritti con l'aiuto di Rosetta Rossi (maestra elementare che scrisse anche le canzoni-inno del Carnevale, poesie dialettali e tanto altro), sono degni di nota. Rappresentano bene, forse più delle intenzioni effettive, quegli anni.
Per questo si sta pensando ad un progetto per fissare nella memoria quel tempo, cercando di capirlo e di trasmetterlo alle generazioni future.
Introduzione del prof. Dipak Pant (antropologo) sul significato del carnevale.
Sergio Monferrini illustrerà la storia che lega la maschera di Ghemme alla Patagonia
Da Franco Cura (Re Barlan negli anni '70), Mauro Imazio Agabio e Carlo Olivero la trascrizione corretta dei discorsi (1951, 1955, 1956 e 1957) e della canzone 1955: la traduzione in italiano e commento.
Correlato al volume, un documento video ed audio con la lettura di Franco Cura dei discorsi e l'esecuzione essenziale delle canzoni.
Un estratto dal Discorso "Lè Vus dèl Barlan" del 1957
(l'originale in dialetto è quasi sempre in rima baciata)
Dalla prima volta che sono venuto, sono passati 10 anni. E mi ricordo che l’emozione era forte, tanto che mi tremavano anche i vestiti, ma la vostra accoglienza e il calore che mi avete dimostrato, mi hanno fatto passare la paura e mi hanno rinfrancato. Poi puntualmente sono sempre venuto, almeno una volta l’anno, a portarvi un po’ di buon umore e sono stato il vostro Barlan.
C’era ancora l’aria scossa dalla tremenda guerra e tutto era sconvolto, noi eravamo a terra e sisentiva ancora l’eco delle ultime schioppettate;
c’era ancora la tessera, il caffè e il tabacco non arrivavano mai. In mezzo a quel caos la scampavamo in qualche maniera, nella libertà riconquistata sorgeva la primavera! Era il primo Carnevale in cui cercavamo di ridere un poco e mi ricordo, avevo i mutandoni di pizzo! Nel nostro intimo scaturiva qualcosa per dimenticare quella chimera, e finalmente chiudere la triste pagina della Brigata Nera. Mi sono presentato con un puro e sincero sentimento che vi portasse un po’ di allegria e affratellasse la gente. Il ricordo del Carnevale era una cosa ormai lontana e allora bisognava di nuovo riprenderlo in mano perché insieme all’ordine e al lavoro, perché ci fosse armonia ci voleva un soffio sincero e palpitante di sana allegria. Ho rovistato nei pallidi e offuscati ricordi con emozione, cercando la trama che riallacciasse nel tempo la vecchia tradizione, il vanto del Paese del Vino, retaggio di sincero e buon umore, la gloria più significativa, nella pace, nell’armonia e nel lavoro.
E ho rovistato cento volte le cose che succedono in Paese, qualche volta vi ho preso in giro, ma siamo sempre amici: un po’ era per davvero, un po’ era per ridere, ma soprattutto era per far rinascere il Carnevale.
Sono stato portavoce – così alla buona – senza tante pretese, delle cose che succedevano e di quelle che si dovevano fare, e ho ironizzato della Banda che non c’era e delle ragazze che vanno alla Sesia vestite di … nudo! Di quelle ragazze che sebbene non l’avevano desiderata, capitava loro di ricevere la cicogna anticipata! Di quelle donne che leggono i fumetti del Bolero e del Grand Hotel, e di quelle che fumano, che si tingono i capelli e che sparlano tra di loro…